P fortuna il Giudizio universale mi era sfuggito durante la prima visita alla chiesa di Santa Maria dei Ghirli in riva al lago. L’affresco quattrocentesco, alto cinque metri e lungo nove, è infatti relegato sotto un porticato protetto da vetri e che affaccia sul piccolo cimitero, quello che ospita le cappelle delle antiche famiglie di Campione d’Italia: Taroni, Bianchi, Moretti, Grandini. Dico per fortuna perché, incontrando poi i protagonisti di questa storia, sarebbe stato inevitabile associarli alla spaventosa scena rappresentata, che oggi appare come una tetra premonizione o maledizione.

Ne sarei stato influenzato irrimediabilmente: i volti, gli sguardi delle persone che ho conosciuto a Campione avrebbero finito per confondersi fino a identificarsi con gli uomini e le donne assiepati ai piedi del Cristo. Un Cristo mai visto così furibondo e apocalittico: seduto a disagio su un imponente trono, freme d’ira nel ruolo d’implacabile giustiziere che torna sulla terra per porre fine alla corruzione, e infatti l’umanità che s’accalca gesticolante e incalzata da arcangeli muniti di spade non pare affatto contrita nel pentimento, tutt’altro: una suora si denuda il petto con spudoratezza, pronta a offrirsi, un mercante porge denaro, certo di poter comprare anche il perdono del giudice supremo. C’è chi imperterrito continua a tirare i dadi. Sullo sfondo s’intravedono macchine da tortura e non c’è traccia di purgatorio o di paradiso, le anime perdute sono afferrate e portate via da diavoli alati.

“Vada, vada al santuario a vedere che posto è questo”, era stato il suggerimento del prete, don Eugenio Mosca, l’ultima persona con cui ho parlato a Campione. “Questo è il regno del diavolo”, aveva ammonito con un ghigno quasi ostile nell’atrio della canonica, forse perché avevo interrotto il suo sacro pranzo (lo si capiva dal tovagliolo che brandiva come un randello). “La ricchezza facile non è stata certo una benedizione divina, non c’è Dio quando il denaro arriva in abbondanza senza produrre nulla; ma questo baratro in cui è finito il paese che cos’è se non un segno del Signore?”.

La Fabbrica

Tutt’altra atmosfera quando a Santa Maria dei Ghirli ci vado la prima volta con Sabrina, al termine di una lunga passeggiata il giorno in cui ci conosciamo. Vuole introdurmi nel suo mondo, nella sua storia, nei suoi pensieri: “È qui che trovo un po’ di pace. Nel 2018 accadeva spesso, là fuori crollava tutto e allora mi sedevo qui per uscire dall’incubo”. Camminiamo sotto i cipressi e i larici del piccolo parco che bordeggia il lago tra le rocce, sul lato del campanile romanico-gotico.

Il sentiero conduce alla doppia scalinata a forbice in pietra grigia, che è l’accesso alla chiesa dal lago. “Le spose arrivano in barca”, dice Sabrina. Poi si corregge: “Arrivavano. Chi vuoi che scelga di sposarsi a Campione? Era il regno della fortuna ed è diventato quello della sfortuna, nera che più nera non si può”. Le aiuole sono piene di sterpaglia, l’erba ai margini delle strade è alta, la grande fontana in mosaico all’entrata del paese venendo da Bissone – dopo il portale d’ingresso in marmo costruito dal fascismo nel 1937 con la scritta “Campione d’Italia” – è imbrattata di muschio secco, agli angoli dei marciapiedi il vento ha cumulato foglie vecchie di due autunni, i cassonetti della spazzatura strabordano nel parcheggio deserto, uno dei tanti parcheggi e autosilos che ospitavano complessivamente fino a tremila auto in un comune di circa 1.900 abitanti e che sono vuoti come quelli dei centri commerciali abbandonati nelle desolate ex periferie industriali, macerie della modernità.

Era la Las Vegas delle Alpi. “Anche tagliare l’erbaccia delle aiuole è un lusso. Sembriamo, anzi siamo, il peggior comune italiano nel mezzo di uno dei più bei paesaggi svizzeri. Con la chiusura della Fabbrica il gioco è finito”, dice Sabrina mentre saliamo in macchina per i tornanti di via Totone (la famiglia di piccoli possidenti terrieri che ha fondato Campione nel settecento, al tempo dei Longobardi) fino a raggiungere i confini a monte. Lassù, oltre un tratto di bosco svizzero dominano, come un balcone naturale sul lago di Lugano, l’altopiano della Sighignola e la valle d’Intelvi, l’Italia.

Campione d’Italia, 13 dicembre 2020. Sandra Bernasconi di fronte al casinò (Gabriele Galimberti)

La Fabbrica, come la chiamano, produceva soldi, una montagna di soldi, era il casinò più grande d’Europa. E Campione d’Italia era l’exclave (territorio collocato fuori dai confini della nazione d’appartenenza) più ricca d’Europa. Nemmeno un chilometro quadrato di terra italiana, più 1,7 chilometri quadrati di lago “territoriale”, circondata dal cantone Ticino. La moneta è il franco, il prefisso telefonico è quello elvetico, ma la sicurezza è garantita dai carabinieri, che in questo villaggio italiano hanno auto con la targa svizzera.

Campione è a trenta chilometri dalla dogana di Como e fa parte di quella provincia, anche se si trova di fronte a Lugano, a quindici minuti in traghetto (quando c’era il servizio di traghetto). Una comunità piccola che attingeva a un giacimento d’oro apparentemente inesauribile. Dal 2005 al 2018 le fiches hanno garantito più di 800 milioni di euro alle casse pubbliche del comune, unico azionista della società concessionaria del casinò, un record da nababbi sauditi. Nell’arco di un anno, il 2018, Campione ha perso tutto. Il casinò è stato chiuso dalla procura di Como per fallimento, il pubblico ministero Pasquale Addesso ha dichiarato che il passivo ammonta a 176 milioni di euro, accumulato in silenzio per anni.

Tra gli indagati per bancarotta preferenziale è stato iscritto anche l’ex sindaco Roberto Salmoiraghi, detto il Faraone. Dodici i capi d’imputazione notificati a indagine conclusa, il 25 maggio del 2020, tra cui abuso d’ufficio, falso in bilancio e falso in atti d’ufficio, a diciannove indagati: sindaci, vicesindaci, dirigenti, segretari.

Prima che l’indagine svelasse il pesantissimo passivo, il casinò era stato chiuso solo due volte. La prima durante l’ultima guerra, la seconda dopo l’operazione San Martino, l’11 novembre 1983, quando furono arrestati con un blitz della guardia di finanza i gestori delle case da gioco di Sanremo e Campione. Le puntate più alte erano usate per riciclare denaro sporco. Al vertice del business, sul lago, c’era Ilario Legnaro, uomo vicino a Nitto Santapaola, il boss di cosa nostra a Catania, con 18 ergastoli sulle spalle. Dopo il processo, la gestione è tornata a essere pubblica e i soldi hanno continuato a sgorgare dalla sorgente, come nelle favole.

Gli assegni per il comune

Nell’ultimo bilancio, la sala da gioco dichiarava 92,8 milioni di franchi di ricavi (85,7 milioni di euro) e la maggior parte di questi arrivava dalle mille slot machine in leasing su cui si riversavano settecentomila persone all’anno. La Fabbrica aveva cinquecento dipendenti con un “tasso di assenteismo molto alto”, come indicato nell’ultimo bilancio, a cui andavano 50 milioni di euro di stipendi. Poi c’erano gli assegni da versare al comune per sostenere le spese municipali e i fondi che venivano girati, negli anni d’oro, alle province di Como e Lecco. Parte di questi soldi andava anche al ministero dell’interno, che a sua volta li metteva a disposizione delle amministrazioni del sud, ma non solo: “Tutte le case da gioco, ma soprattutto il casinò di Campione finché era aperto”, mi ha detto a Roma un ex ministro che ha chiesto di rimanere anonimo, “versano fondi sottobanco al ministero dell’interno, che servono ai servizi segreti, per esempio per pagare gli informatori o i riscatti dei cittadini italiani sequestrati all’estero. Denaro che è andato anche ai terroristi. Ricordo che c’era proprio uno specifico fondo Campione”.

Campione d’Italia, 13 dicembre 2020 (Gabriele Galimberti)

Chiusa la fabbrica dei soldi, il municipio non ha potuto più fare affidamento sui fondi che arrivavano dal casinò, ed è stato commissariato per un dissesto finanziario di 61 milioni di euro.

“Negli anni il clientelismo ha trasformato la sede del municipio in una vacca sacra dalle tette d’oro, uno stipendificio immorale”, mi dice il commissario Giorgio Zanzi, ex prefetto di Varese, che quando lo intervisto amministra il comune al posto del sindaco. Doveva andare in pensione, poi nel fatidico 2018 ha ricevuto l’incarico dall’allora ministro dell’interno Matteo Salvini, il segretario della Lega, il partito più votato in Lombardia. Quando è arrivato il commissario i dipendenti erano 103, un milione di euro di stipendi da pagare ogni mese.

“Il commesso del comune guadagna in franchi l’equivalente di seimila euro al mese, da prefetto io ne guadagno 5.500”, dice Zanzi. La giunta pagava venti vigili urbani, l’ex comandante Maurizio Tumbiolo, uno degli indagati, si era nominato tenente colonnello e guadagnava circa 160mila euro all’anno (il predecessore di Zanzi, Umberto Calandrella aveva impugnato inutilmente l’atto). Stipendi in franchi pieni di zeri ai dirigenti, riconoscimenti d’indennità corpose ai lavoratori che arrivavano dall’Italia, “per adeguare le retribuzioni al costo della vita svizzero”, spiega il commissario.