Al servizio psichiatrico dell’Ospedale maggiore di Trieste la porta è sempre aperta. La costrizione e l’isolamento, tecniche diffuse in tutto il mondo per controllare i pazienti in crisi, qui sono concetti estranei. Amici e familiari sono benvenuti e accolti in un spazio con un arredamento informale e quadri vivaci alle pareti, più confortevole che “clinico”. A volte le situazioni difficili si possono risolvere con una passeggiata nel cortile dell’ospedale, spiega Domenico Petrara, un infermiere dai modi gentili e rilassati che indossa dei jeans e una felpa. L’unità ha otto posti letto e raramente è piena. Le persone vengono dimesse rapidamente e affidate alla rete territoriale dei centri di salute mentale. Il modello di Trieste affascina la comunità psichiatrica da quasi mezzo secolo. È in netto contrasto con quello di molti altri paesi, in cui il ricovero è largamente diffuso anche se scoraggiato dalle direttive dell’Organizzazione mondiale della sanità.

Secondo i dati dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, nel 2022 l’Italia nelle strutture psichiatriche aveva meno di dieci posti letto ogni centomila abitanti, mentre in Giappone, un altro paese del G7, i posti letto erano 258. In Giappone è ancora attiva una vasta rete di centri psichiatrici che, negli ultimi vent’anni, si sono rivelati fondamentali per ridurre il tasso di suicidi. I sistemi dei due paesi sono agli antipodi nel dibattito decennale su quale sia il modo migliore per prendersi cura delle persone affette da malattie psichiatriche e per garantire che possano continuare a svolgere un ruolo nella società. Negli ultimi decenni molti governi hanno valutato la possibilità di sostituire le grandi strutture con un’assistenza specializzata di comunità, ma raramente la transizione si è rivelata efficace.

Cittadini con dei diritti

Secondo United for global mental health, un’ong internazionale, oggi 8,6 milioni di persone vivono all’interno di istituzioni considerate ospedali psichiatrici dall’Oms. “I governi dovrebbero modificare radicalmente i finanziamenti per le strutture di salute mentale. L’attenzione e i fondi si concentrano eccessivamente sul ricovero forzato dei pazienti per periodi di tempo inutilmente lunghi”, sottolinea Sarah Kline, amministratrice delegata dell’ong. Kline ritiene che l’assistenza fornita a livello locale attraverso i servizi di comunità produca risultati migliori e sia economicamente più vantaggiosa, oltre a rispettare i diritti dei pazienti. Nathaniel Counts, del Kennedy Forum, un’organizzazione statunitense non profit specializzata nei servizi di salute mentale, è convinto che la situazione sia più complessa: “La salute mentale è un continuum”, spiega, sottolineando che le persone richiedono forme diverse di trattamento in diversi momenti della vita. “L’obiettivo è fare in modo che abbiano modelli di assistenza graduali, capaci di tenere conto delle loro esigenze in ogni momento”, aggiunge Counts.

Per molti politici Trieste rappresenta il miglior esempio di assistenza alla salute mentale basata sulla comunità. La città ha un’influenza enorme nel dibattito internazionale sulla cura dei disturbi psichiatrici, in gran parte grazie a Franco Basaglia, che nel 1971 diventò direttore dell’ospedale psichiatrico provinciale di Trieste. Roberto Mezzina, ex direttore del dipartimento di salute mentale di Trieste, ha lavorato con Basaglia all’inizio della sua carriera. Il principio guida di Basaglia era che chi ha problemi di salute mentale deve essere rispettato come cittadino con dei diritti, e non considerato come qualcuno che per la sua condizione è posto al di fuori della società. Basaglia diceva spesso che era necessario “mettere la malattia tra parentesi”, ricorda Mezzina. “Questo non significa negarla, ma metterla da parte e guardare la persona, allora si può capire meglio la malattia tenendo conto dell’intera vita della persona”.

Senza barriere, si affrontano i problemi prima che la situazione peggiori

Anche molti altri paesi sviluppati, tra cui gli Stati Uniti e il Regno Unito, hanno deciso di chiudere i grandi ospedali psichiatrici, ma spesso questo ha portato a una netta riduzione delle risorse per la cura dei disturbi psichiatrici. A Trieste, invece, il denaro generato quasi cinquant’anni fa dalla chiusura di una struttura da 1.200 posti letto fu usato per rafforzare i servizi di comunità.