Mi trovo nella casa in cui i miei genitori hanno vissuto per 33 anni, dove ho ancora una stanza a cui continuo a tornare come un animale all’abbeveratoio. Presto sarà distrutta per essere trasformata in un complesso di appartamenti. Sul mio letto ci sono delle scatole di cartone portate giù dalla soffitta. Sono piene di utensili da cucina in miniatura, bambole Barbie e Sindy con tutto il loro armamentario: mobili, vestiti, perfino una vasca da bagno e un gabinetto. In una scatola a parte c’è Tom, il mio eterno bambino di sei mesi.

È strano rivedere le mie vecchie bambole, come se un’onda gigantesca avesse raggiunto la mia infanzia per trascinare questi oggetti dal loro sonno e lasciarli sulla riva del mio letto. Tutti quei piccoli vestiti, borse, cappotti di pelliccia, racchette da tennis! Li raccolgo uno a uno: l’elegante abito da sera bordeaux, il vestito sexy dorato da cha cha cha, l’intera gamma di tute e maglioni di lana che mia nonna gallese lavorava a maglia due per volta, per le bambole di mia sorella e le mie. La cosa più miracolosa sono le decine di paia di scarpe minuscole, meticolosamente conservate nei vecchi barattoli di crema per il viso di mia madre: décolleté, ciabatte, scarpe da ginnastica e tacchi a spillo. C’è perfino un cappello da majorette rosso e argento con stivali abbinati.

È strano rivedere le mie vecchie bambole, come se un’onda gigantesca avesse raggiunto la mia infanzia per trascinare questi oggetti e lasciarli sulla riva del mio letto

Tom è seduto nella sua scatola, uno dei suoi occhi blu è chiuso. Quando mi avvicino a lui ritorno bambina, gli scuoto delicatamente la testa in modo che l’occhio possa sbloccarsi. Gli tolgo i vestiti impolverati e lo porto al lavandino, gli insapono con cura le gambe e le braccia in silicone vinilico, facendo attenzione a non bagnargli la pancia imbottita. Gli massaggio la testolina e lo asciugo. C’è qualcosa di rilassante nel ripetere azioni che non compio da tanti anni. Tutte quelle ore passate ad accarezzare e a far finta di nutrire, a parlare e a coccolare.

Nel paese delle bambole, delle marionette, dei manichini, delle statue di cera – tutti quegli oggetti inanimati investiti di qualità umane – esiste un confine tenero ma inquietante, una soglia evanescente e mobile che potresti attraversare all’improvviso. Lo psichiatra tedesco Ernst Jentsch nel 1906 lo definì das Unheimliche, il perturbante, ciò che c’inquieta e ci spiazza perché non sappiamo con certezza se una cosa è animata o inanimata. Sigmund Freud introdusse la nozione di perturbante al grande pubblico con un saggio sull’argomento tredici anni dopo, individuandone la radice nella repressione. Nel 1970, lo studioso di robotica giapponese Masahiro Mori applicò il concetto ai robot, prevedendo che, mentre agli esseri umani piacevano i robot con qualità simili a quelle umane, se i robot fossero diventati troppo umani ci avrebbero fatto precipitare “nel bukimi, la valle perturbante”.

Quando portai Tom a casa per la prima volta nella città che allora chiamavamo Madras, in India, era l’estate del 1983. Spiando dalla porta d’ingresso un fattorino lo vide e pensò che fosse un bambino vero. Chissà, forse provò un brivido _bukimi _quando scoprì di essere stato ingannato da un pupazzo. Ma io, se mi riunisco alle mie bambole, provo solo tenerezza. Perfino per le loro tristi gambe e braccia, allentate nelle loro orbite dopo anni di umidità feroce. Ogni oggetto è un talismano mnemonico, che mi riporta in un luogo da cui sono stata separata per così tanto tempo.

Charles Baudelaire e Rainer Maria Rilke scrissero dei saggi sulle bambole (Baudelaire era più affascinato dalla vita in miniatura rispetto a Rilke, che invece era turbato dalle “bambole apatiche e immutabili dell’infanzia”). Entrambi i poeti concepiscono il perturbante come una qualità che ha a che fare con la coscienza. Arriva un momento, scrive Baudelaire, in cui il bambino scuote e contorce la bambola, cercando di aprirla e dicendo: “Ma dov’è l’anima?”. Baudelaire indica questo momento come la “prima tendenza metafisica”, l’inizio dello stupore e della malinconia, quando il bambino si rende conto che nessuna percossa farà uscire una risposta dalla bambola, che la sua anima non sarà rivelata. Un senso di disillusione sorge quando il confine tra fantasia e realtà diventa più chiaro. Per Rilke, invece, la valle perturbante era un abisso. Stupisce che un poeta che ha scritto con un simile ardore “la poesia delle cose” (Dinggedichte) possa accanirsi così tanto sulla passività delle bambole, fino a incolparle di creare una distanza tra noi e il mondo. La chiamava la “pausa del cuore”, quella sensazione di essere consapevoli di un silenzio più grande della vita che respira su di noi: la morte. Sedersi di fronte a una bambola che ti fissa può scaraventarti in quell’abisso.

Non ricordo di aver provato una pausa del cuore con Tom, tranne quando l’ho impacchettato in una scatola di cartone sigillata prima di andare all’università. Mi è sembrato di tradirlo, consegnandolo a una vita claustrofobica e solitaria in soffitta mentre io partivo all’avventura. Come tanti bambini in tutto il mondo, credevo che le mie bambole prendessero vita di notte, quando dormivo. Nei libri di Enid Blyton, un punto fermo della mia infanzia, i giocattoli prendevano vita solo quando nessuno li guardava. Era come se si animassero proprio grazie alla nostra sospensione notturna. A volte sentivo lo scalpiccio dei piedi sul pavimento o un rimestare sullo scaffale delle bambole, ma non sono mai rimasta sveglia per cercare di coglierle sul fatto. Non credo che volessi vederle animate più di quanto volessi vedere Babbo Natale arrampicarsi dalla finestra. Quella di Pinocchio è sempre stata per me una storia dell’orrore: il pupazzo che prende vita e non si comporta come dovrebbe. Mi risvegliava qualcosa dentro. Adoravo le mie bambole per la loro passività, per la loro costante disponibilità a farsi proiettare addosso qualsiasi storia.

Francesca Ghermandi

Se, come scrive Roberto Calasso in _La folie Baudelaire _(Adelphi 2010), “l’atto di raccontare è la prima – forse anche l’ultima – forma della coscienza”, allora le bambole possono aprire un primo accesso a questa coscienza. Prima di cominciare a giocare, si stabiliscono identità e ruoli. Quando giocavo con mia sorella e i miei cugini, uno di noi diceva: “Sono il più veloce del mondo”; un altro: “Sono il miglior cuoco del mondo”; e poi io rovinavo tutto urlando: “Sono la migliore in tutto del mondo”. Sapevamo tutti, però, che una volta entrati nel gioco tutte le regole potevano cambiare. La struttura serviva solo come una specie di soglia, un segnale che indicava che stavamo passando da questo mondo a un altro.

Spesso, quando giocavamo, non avevamo nemmeno bisogno delle bambole. Potevamo creare mondi con qualche vecchio sari: dottore-dottore, matrimonio-matrimonio, casa-casa. La doppia ripetizione nei nomi dei giochi, che riecheggiava il linguaggio infantile da cui quel mondo scaturiva, ci spingeva in un altro regno temporale, oltre i confini di quello ordinario. Un tempo di sogno che si librava in uno spazio suo, al di sopra dei richiami insistenti di atavolaèpronto o èoraditornareacasa: il tipo di atemporalità che ogni poesia spera di cogliere. Ora penso a quel tempo di gioco come allo spazio a cui voglio accedere quando scrivo. Una sospensione dal tempo lineare che permette ogni tipo di trasformazione.