Quando nel novembre del 2013 i presidenti della Commissione europea e del Consiglio europeo, José Manuel Barroso ed Herman Van Rompuy, andarono in visita a Pechino, c’erano grandi speranze di arrivare a firmare un accordo sugli investimenti con la Cina nel giro di trenta mesi. Nella Grande sala del popolo, in piedi accanto al primo ministro cinese Li Keqiang, Van Rompuy dichiarò: “Commercio e investimenti sono prioritari e l’avvio di negoziati per raggiungere un accordo è un importante passo avanti. Parità di condizioni, trasparenza e fiducia nelle regole sono fondamentali per far prosperare gli affari”. Dopotutto, nel 2013 gli obiettivi erano piuttosto modesti: ridurre i limiti agli investimenti e l’incertezza giuridica per le aziende europee che operavano in Cina, e far crescere gli scambi bilaterali fino a un volume di mille miliardi di dollari entro il 2020. Barroso e Van Rompuy, i cui mandati si sarebbero conclusi dopo un anno, non potevano immaginare che ci sarebbero voluti sette anni e 35 round di negoziati per arrivare a un accordo.

Nel 2013, però, eravamo in un’altra era. Sette anni fa pochi avrebbero messo in discussione la solidità dell’alleanza transa­tlantica tra Europa e Stati Uniti e qualsiasi allusione a una nuova guerra fredda tra Pechino e Washington sarebbe stata respinta come mera speculazione.

“Dubito che la Cina rispetterà mai la convenzione contro il lavoro forzato”

Oggi ci ritroviamo in un mondo profondamente diviso e polarizzato: Europa e Stati Uniti stanno affrontando una pandemia; la Banca mondiale ha stimato un crollo della produzione globale del 5,2 per cento nel 2020 – il dato peggiore dalla seconda guerra mondiale – anche se la Cina è riuscita a vedere dei segnali di crescita. In un contesto simile, non sorprende che i leader di Unione europea e Cina il 30 dicembre si siano affrettati ad annunciare l’Accordo globale sugli investimenti (Comprehensive agreement on investment, Cai), che dovrà essere ratificato dai 27 membri dell’Unione e approvato dal parlamento europeo. Chi critica l’accordo, però, sostiene che se per Pechino può essere una vittoria simbolica, Bruxelles ha poco da guadagnarci.